Franco Pedrina

Marco Goldin


Lettera per l’amore e il cielo

Caro Franco,
ho letto ieri sera, sul tardi, la tua biografia. Scritta da te, dunque, autobiografia. Bellissima, piena di vita, di ricordi, di sogni. Piena di persone, di cose, di amore, come così poche volte oggi si può vedere. Di tutto quello che dovrebbe muovere il nostro cammino e ormai non nominiamo nemmeno più. Come sai h mancato nei tuoi confronti, e questo libro sarebbe dovuto uscire giusto un anno fa. Il mio testo non arrivava mai e il menabò restava così nel cassetto. Ho pensato a come avrei potuto scrivere su di te. A come prima ancora che a che cosa, e questo non è usuale. Avevo aperto qua e là, di tanto in tanto, preso dal rimorso le pagine già composte dell’autobiografia, per mandare a mente qualche notizia qualche frase che mi pareva potesse staccarsi dalle altre. Volevo trattenere un’impronta, un segno che aprisse poi uno spazio. Avevo trovato piene di verità e commozione le tue parole. Ma ieri sera ho letto quelle pagine tutte di un fiato, senza interruzioni e ancor di più, alla fine, ho sentito l’inutilità delle parole, le mie, che avrei dovuto aggiungere alle tue. Parlavi di te, di come fosse iniziata la pittura, facevi riferimenti critici corretti per il tuo lavoro, si capiva benissimo quanto fosse sempre contato l’uomo, la sua storia che andava poi abitata e lasciavi poi intuire luoghi, paesaggi, luci, focolari accesi. Questa fitta trama di esistenza, di sonorità mai spente, di odori che ci accompagnano dall’infanzia e fino alla morte, mi spaventava. E non perché non mi ci trovassi coinvolto, anzi. Ma perché non avrei potuto immaginare un libro con ‘usuale testo critico da affiancare al tuo, anche se va di moda parlare di alternanza e sarebbe potuta andar bene la filologia accanto al cuore. Eppure mi piace di più la filologia del cuore, e vada dunque per questa. Così dopo aver posato i fogli tuoi ho pensato a cosa diavolo avrei potuto mettere sulle mie di pagine, a come avrei potuto costruire una continuità, che in questo caso amavo molto più dell’alternanza. Ho immaginato n libro attraversato da una corrente d’amore, un libro che potesse a tutti far sentire la passione e il desiderio verso la pittura e che provasse ad avere parole non lontane da essa. Le tue certamente non lo sono, anzi le si stringono attorno in un abbraccio ed è come sempre così, che molto di più si parla di una cosa quando non la si nomina, le si crea attorno un’assenza. Le mie non so come verranno, se avranno, chissà, lo stesso tono di verità, la stessa necessità. Comunque ho pensato, come avrai già visto, di rivolgermi a te con una lettera, questa. Una lunga lettera che serva anche a me per procedere senza fratture con il ricordo breve che ho di te, della tua pittura, del tuo mondo sentito raccontare, letto, immaginato. Mi serva di conforto nel tentativo di dire, di spiegare, senza avere l’assillo della parola che tutto deve scoprire, e giustificare. Spero che questo non ti dispiaccia, e lo considero un dialogo tra me e te, il cui primo tempo sono proprio le pagine stampate qui subito dopo l’ultimo quadro. Spero che il lettore non si senta escluso da questo nostro parlare, ma si senta, di più, centro egli stesso di un emozione, di un ricordo, centro della pittura.
In questa pittura accadono tante storie, fin da quella metà degli anni sessanta che ne determina l’inizio cosciente. Avevo scritto un appunto, molti mesi fa, sul primo foglio bianco del menabò, che poi come ti ho detto ho trascinato da una scrivania all’atra, nella speranza che venisse il tempo giusto che poi non veniva mai. Ho scritto “pittura afasica”, cioè priva di voce; con una voce, meglio, che si manifesta a stento, non ha un tono urlato. E questo nonostante sia stata da subito pittura fatta di angoli e di spigoli, di spini, di fuochi e rovi.
Avevo scritto quelle due parole come per ricordare il punto da cui avrei voluto cominciare, per non dimenticare il centro per me più vero delle tue immagini. E mi pareva di poter riferire in modo speculare questa piccola definizione anche al tuo essere nel mondo. Ho trovato una tua bella frase: “Anche se io mi ostinavo a non capire che sono i pugni e i schei a far largo”, che è per me la conferma di come ti ho visto (quelle poche volte che ti ho visto) fin dalla prima volta. All’inizio con la mediazione di Attilio (vedi, pur essendo tutti e due veneti, tu avresti scritto l’Attilio, milanesizzato come sei, mentre io, che nel Veneto ci sono rimasto, riferisco l’articolo determinativo solo alla figura femminile, e dico quindi di tua moglie la Giuliana, ma non di te il Franco), poi con un pranzo in via San Marco, infine con alcuni altri incontri per le mostre che in quest’anno sono andato preparando. Quel pranzo sobrio mi ha ricordato immediatamente tanti pranzi domenicali nella casa dei nonni paterni, sui colli Euganei che con tutta la famiglia raggiungevamo una volta al mese da Treviso. La tavola rotonda non grande, nessuno sfarzo, ma solo la semplicità di una piccola famiglia che ci accoglieva con la tovaglia che sapeva di bucato, le sedie un po’ scricchiolanti, la luce che nei giorni freddi di gennaio entrava attenuata dalla tenda alla mia destra. Le posate per il giorno della festa, mia nonna che finiva di preparare le lasagne fatte in casa, il pane che non c’è più, mio nonno che aspettava lieto con il sole che lo carezzava sui capelli candidi. Nel piccolo salotto una sedia a dondolo addolcita da un cuscino ricamato all’uncinetto, la terrazza che dava sul campanile di una brutta chiesa, la penombra dei pomeriggi domenicali, un breve sonno dopo il pranzo. Ero il più grande dei miei fratelli, avevamo alla sera, prima di ripartire, mille lire di mancia. Ecco, ho pensato subito a quei momenti quando ho pranzato insieme a te, con le stesse o quasi cose che mi davano i nonni: pasta con il ragù e poi arrosto di vitello con le patate e i piselli. Non so, mi pare che nelle case non si mangi più così, non ci sia più una nonna che resta in casa ad aspettare i figli e i nipoti, ad apparecchiare una tavola con la tovaglia bianca a piccoli fiori gialli.
E se qualcuno aprisse senza sapere questo libro adesso, in questo punto, non immaginerebbe mai che è un libro su un pittore, che ci dovrebbe essere, da qualche parte, anche qualcosa di detto sulla pittura. Perché poi, proprio vicino a questa frase, ho trovato il tuo ricordo di Pierluigi Lavagnino, al quale sono stato molto legato negli ultimi dieci anni della sua vita. E mi sono commosso pensando all’ultima volta che ci siamo visti, e naturalmente non sapevo sarebbe stata proprio l’ultima volta. Passavo da Milano andando a Lugano, e come spesso ci capitava abbiamo mangiato insieme una pizza, anche se non dal Biagio (faccio il milanese, adesso) sotto casa sua, ma dalle parti di Porta Genova. Era l’autunno, credo novembre, nessuno sapeva niente e nessuno sapeva che poco più di due mesi dopo Pierluigi non ci sarebbe stato più. E’ partito una domenica sera, mi ha telefonato Attilio la mattina dopo sul presto, come sempre fa. L’avevo sentito al telefono il giovedì precedente, solo tre giorni prima. Salutai mia nonna una domenica sera, nella grande casa di campagna, mi strinse più forte del solito a sé, forse sapeva. Tre giorni dopo mia mamma mi telefonò per dirmi che era morta. Sempre questi tre giorni. Forse sei stato con Attilio a trovarlo già la sera, sul suo letto, così vestito per il dopo morte, che come si sa è la pulizia di ogni indumento, la barba fatta, i denti lavati, la camicia stirata, le scarpe lucidate. Fare le cose per bene, perché solo questo è veramente per sempre. Ho sempre imparato molte cose fin da bambino. Ho spiato mia nonna morta, avevo nove anni, nella cassa appoggiata sul pavimento davanti al tinello. I grandi mi spingevano via perché non vedessi e mi dicevano d restare in giardino, giusto trent’anni fa. Mio nonno tagliava i morti, secondo la consuetudine popolare. Era anatomo-patologo, gli hanno appena sventrato il suo storico centro a Santa Maria dei Battuti per un restauro. H visto piccolo un autopsia, un uomo anziano cui usciva una cannula dalle parti del fegato. Non ho avuto paura e ho osservato tutto come se fosse normale. Sentivo parlare della morte da mio nonno così spesso, lui che la trattava come strumento e trascendenza. Poi ho avuto improvvisamente paura. So esattamente il momento. Tornavo dalla casa di campagna e sulla strada, ancora la domenica sera, abbiamo visto un incidente, una macchina rovesciata e u uomo insanguinato riverso sulla strada. Ho sentito la morte in modo diverso. Tu hai visto Pierluigi lì, presente ma già andato via, che non ti poteva più salutare. Già pulito per il dopo morte, ora che la morte non era più ma solo il suo seguito, che a tutti noi è ignota vista dall’altra parte, che solo la morte ci potrà rivelare ma che non potremo a nessuno svelare. Aveva scelto il silenzio per andar via (“una bronchite, ma in via di guarigione, mi rimetterò presto e verrò a vedere la mostra prima che sia finita”, mi diceva al telefono il giovedì), senza che nessuno sapesse. Anche gli esami all’ospedale, di tanto in tanto, erano solo routine.
Dunque la tua pittura afasica, il silenzio che vale per la parola. Mi piace parlare del tuo lavoro come lo stessi confidando solo a te e non vi fossero attorno presenze. Non ci siamo mai detti niente sul suo senso più autentico, e nemmeno di quello più largo, mai abbiamo parlato di cosa contengano i tuoi quadri. Solo qualche breve accenno durante il pranzo di via San Marco. Potrei dire che ti è sempre piaciuta un’idea di sottobosco, di carcassa animale, di cartilagini intirizzite dal gelo. Un tuo gruppo di opere, dipinto tra il 1972 e 1973, ha un muto clangore notturno abbarbicato attorno a forme primitive, che sono il contatto diretto con l’origine. Ecco, forse in questo senso mi verrebbe da dire che la tua è una pittura religiosa, quasi francescana. Del resto, tra i riferimenti stilistici che tu stesso hai messo per iscritto, quello che mi sembra più puntuale è il nome di Graham Sutherland, guarda caso un artista che ha indagato a lungo l’idea della metamorfosi naturale, di una sorta di antropomorfismo della realtà soprattutto vegetale. Ma che ha sentito anche forte il contatto tra l’intricata vegetalità delle spine e la corona sopra la testa sanguinante di Cristo. Le sue crocifissioni sono certo uno degli esempi più alti che il Novecento ci abbia lasciato di pittura religiosa.
Mi pare che tu abbia rifiutato subito i compromessi di una pittura sovrabbondante, nella quale spesso l’accumulo di materia è inversamente proporzionale alla sostanza della verità e della poesia. Talune cartilagini di natura erano il desiderio di allacciarsi all’essenza, che aveva sempre al suo fondo la necessità del disegno. La necessità, soprattutto, di una trama sulla quale ogni esperienza potesse appoggiarsi. Così, in terra lombarda, hai costruito una pittura che aveva il bisogno di non fermarsi al ribollire della materia (e lascio stare gli stereotipi della fangosità di quella stessa materia), ma sentiva al suo interno l’esigenza di una struttura, di uno scheletro che la sostenesse. Sono così nati subito quadri bellissimi, di tono quasi profetico, aurorale. E mi accorgo che, senza volerlo, mi imponi quasi una terminologia religiosa, cosa alla quale non sono poi così abituato. Ma mi piace questo tuo spogliarti del superfluo, tendere alla castità del colore e dell’immagine, fare dei molti l’uno. E’ lo sprofondamento di un cannocchiale al rovescio, che illumina lo spazio da cui sorge la vita, e dilaga poi nell’azzurro di un mare che non si vede e unicamente s’immagina.
L’inizio e la fine nella tua pittura hanno trovato un punto d’unione, e congiungendo così il tempo hai determinato un solo, grande spazio. In questo hai messo le tue impronte, come quelle dell’animale ferito che calpesta la neve. Non riesco a pensare ai tuoi quadri senza questa distensione del tempo, che mi affascina e ancor più mi emoziona. Non importa il soggetto del racconto, se il punto del nascere e quello del morire costituiscono una grande unità da cui emerge la forma. Per cui lavori su una superficie lacera, consunta sulla quale si stampano come effigie i bagliori acuminati della vita. E dunque non procedi per accumulo ma per sottrazione, scavando e cavando da un magma originario le misure nuove di una visione.
Non hai mai amato l’immagine che si dichiarava fin dal suo primo apparire, dal suo essere nel mondo, e in questo ti sento certamente vicino al tuo amico Attilio Forgioli. Avete in comune quest’ansia di presentazione nascosta, questo desiderio che l’impatto del silenzio, però crepitante in te, vinca su tutto. Anche quando hai dipinto angurie, ed era l’inizio degli anni ottanta, ne hai sottolineato il lato di adesione allo spazio, fosse un’emersione o uno sprofondamento. Cosicché non si capisce bene se il frutto si stia allontanando da noi o piuttosto sia ormai giunto a presentarsi nella sua ininterrotta dissoluzione. L’assenza ha sempre lavorato per la presenza, i vuoti sono sempre stati sempre più importanti dei pieni, hai guardato alle pause, ai vuoti d’aria azzurri come una benedizione. Per questo il corpo di una donna non è diverso nella pittura da una fioritura di muschi, e talvolta anzi stanno insieme sulla tela bianca a coprirla, come una doppia apparizione.
Avrei voluto camminare con te in un bosco per capire con quali occhi guardavi la natura, le piante, le foglie, gli alberi, se poi nei quadri riducevi tutto a una ragnatela fiorita e verde. Ho qui davanti, distese sul mio tavolo, alcune foto di opere tue dipinte nel 1976. C’è quel disinteresse per il lusso della pittura che mi tocca, e forse averla detta prima francescana non è poi così un’idiozia. Forse il primo Montale avrebbe potuto commentare bene queste immagini, ridotte all’osso ma sempre secondo il senso di un’acclamata infiorescenza. Perché è come se una primavera perenne si manifestasse sul tessuto dell’inverno, sulla sua neve, sulla nudità dei cieli, sulla bambagia di una nebbia appena gialla. Roteano nell’aria queste forme, e sono stelle, lune affioranti, pianeti lontani. Senza esserlo.
Sono in verità radici, giunture della natura e della vita, lievi rossori di terra smossa e presa col sangue dei sogni. C’è una simile concimazione che mette insieme l’alba della pianura distesa e la luce livida della montagna. Così dall’inizio alla fine, e forse con una più arabescata modulazione venendo ad anni più vicini. Ma c’è una continuità, il senso di un’avventura sempre raccolta attorno a un suo centro, l’idea di una fedeltà che non può essere casuale.
Credo di conoscere pochi, o forse quasi nessun pittore, che come te non mostri frattura alcuna tra l’essere e l’operare, che faccia dell’opera la stessa tensione che è della vita. E, mi dico, l’opera per te è la diretta conseguenza della vita, e senza questa non sarebbe mai venuta quella. Al di là, certo, di malintese equazioni romantiche e dissolutorie. Perché in tutto ciò che fai, e dici, e dipingi, c’è una misura che pare baciata dalla grazia. E mi accorgo solo adesso, dopo queste pagine scritte, che è quasi assurdo che sia io, che praticamente non ti conosco, a dover mettere parole al tuo fianco, al fianco della tua pittura. Tu che hai memoria degli amici, che tieni il conto di chi non c’è più e ne parli come potesse essere ancora presente, vivente. Di me non hai memoria allo stesso modo in cui io non ne ho di te. Ed è una cosa difficile da immaginare un ricordo prima di aver vissuto. Ma si può fare. Con te si può fare. Ed è così che cerco di scrivere adesso, ascoltando la vita che verrà come se fosse già stata; dare al presente il valore di un tempo che tutto comprende e raccoglie. Eppure, penso, tutto questo non lo potrei fare se tu non fossi come sei, tenacemente stretto al valore più resistente delle cose e della vita. E dipingi in una piccola stanza dove aduni il tuo mondo, dove continui a scavare l’esistenza del reale, tutto cosparso di segni, trafitture, di fioriture del verde sopra una bruma vegetale. E’ in questo modo che ti presenti, sempre presente nel chiarore fresco e abbuiato del bosco. Non può essere un caso se coltivando queste forme primitive rimandi al tuo vivere nascosto, al tuo essere al di sotto delle tracce visibili. Perché non dipingi mai una cosa ma solo a sua impronta, quella lieve pressione che fa il mondo confondendosi con se stesso nella visione.
Il tuo non è mai stato unicamente un vedere fisico, ma dalla realtà hai tratto il motivo per procedere, per andare oltre, per bucare il velo delle apparenze. Anche per questo è difficile classificare la tua pittura, e francamente non mi interessa e non lo faccio. Non ho mai creduto che senza una definizione non si possa andare avanti, anche se, effettivamente, è molto più comodo essere inseriti nei manualetti sotto la voce “pittore lombardo” (cosa vuol dire?) per la facilità di consultazione della critica. Ma, si sa, i critici sono molto pigri e se non trovano qualcuno nel manualetto non lo considerano. E poi, come si potrebbe definire la tua pittura? Ci ho pensato a lungo m proprio non mi viene. Sei un figurativo? Sei un astratto? Ci sarebbero motivazioni per affermare la prima cosa e anche la seconda, dunque non affermare niente. So solo che vivi in quella zona intermedia che è fonte autentica di poesia, in quello spazio, come diceva Klee, dove abitano i nati come i non nati. Nello spazio non consequenziale ma che si offre nella sua contemporaneità circolare. Per scoprirti no serve seguire il senso della cronologia. La tua pittura si dà nell’immediatezza del tempo, nel suo proporsi come istante assoluto, come ciò che contiene il passato e il futuro congiunti nel presente. Intendo dire che l’immagine tua si lascia cogliere e guardare nel suo essere priva di storia, perché essa è già nata come storia, non ha necessità di svolgimento. Questo mi appassiona del tuo essere pittore: vai al cuore dell’evento perché ne seti già in principio la forza e dipingi uno stato dell’essere. E così che il tuo lavoro se ha attraversato delle fasi, com’è naturale, ha una scansione che si può distinguere dai temi, dai racconti, ma questa è soltanto una logica esterna, della visione superficiale. Solo in questo senso potrei dire che c’è stata una consequenzialità. Perché invece per il resto, cioè la parte più vera  profonda, sei stato subito quello che sei adesso, e nulla importa sapere quando hai dipinto foglie, boschi, donne, girasoli o angurie.
Credi tu sia il pittore dell’istante che si perpetua nell’eterno, hai cercato subito la profondità della visione, e hai capito che in quella profondità si formava l’evento, si era già formato l’essere. Così, partito da tanto lontano, è stato normale trovare quasi con sospetto la luce della superficie, ed è ancora per questo che la tua pittura di superficie non poteva essere più che una pittura di tracce. Si è sempre trattato di scegliere tra l’apparenza e la verità delle cose. La tua decisione di seguire e incontrare la verità era innata dentro di te. Non so se l’arte possa essere testimonianza di un nostro credere, perché forse qui inizierebbe un altro discorso che certamente altri potrebbero fare molto meglio di me. Ma quello che ti voglio lasciar scritto qui, arrivato in fondo, è che dentro questa profondità di pittura e di vita c’è la segreta sapienza del cuore, l’accensione di un lume che si può modulare nei suoi riflessi ma tocca comunque, in ogni momento, i confini della prima alba del mondo. Quei confini che hai attraversato, caro pittore di una rivelazione.

 

(Presentazione della monografia edita in occasione della mostra personale a Palazzo Sarcinelli, Conegliano, aprile-maggio 2001)

 

 

 


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